GINEVRA – Le soluzioni alle crisi climatiche sono spesso associate alle grandi conferenze e, per questo motivo, le prossime due settimane dovrebbero portare con sé molte “risposte”. Circa ventimila delegati sono confluiti a Bonn, in Germania, per l’ultima tornata dei colloqui sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite.
I colloqui di Bonn dovrebbero avere come tema centrale l’attuazione dell’accordo di Parigi sul clima, obiettivo per raggiungere il quale la strada da intraprendere è ormai nota. L’unico modo per contenere l’aumento delle temperature globali entro il limite fissato a Parigi – “ben al di sotto di 2°C” rispetto ai livelli pre-industriali – è distogliere capitali dai combustibili fossili per indirizzarli verso progetti a zero emissioni di anidride carbonica. Per fare ciò, occorre cambiare il modo di gestire gli investimenti energetici a livello globale.
Attualmente, sono gli stessi governi che si proclamano leader nella lotta contro il cambiamento climatico a sostenere e proteggere investimenti finalizzati alla prospezione, l’estrazione e il trasporto dei combustibili fossili. Anziché investire in soluzioni abitative efficienti sotto il profilo energetico, mobilità a zero emissioni, energie rinnovabili e metodi per un miglior utilizzo del suolo, questi governi dicono una cosa, ma continuano a farne un’altra.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) sugli investimenti energetici mondiali, la spesa globale per lo sfruttamento del petrolio e del gas è stata di 649 miliardi di dollari nel 2016, ovvero più del doppio rispetto ai 297 miliardi di dollari investiti nella produzione di energia da fonti rinnovabili, anche se il raggiungimento dell’obiettivo fissato dall’accordo di Parigi implica che tre quarti delle riserve conosciute di combustibili fossili debbano rimanere nel sottosuolo. Queste cifre suggeriscono che un’inerzia a livello istituzionale e dei forti interessi industriali continuano a ostacolare gli investimenti in energie sostenibili.
Buona parte del problema può essere ricondotta ai trattati bilaterali di investimento e alle norme sugli investimenti contenute in accordi commerciali più ampi, come l’accordo nordamericano di libero scambio (NAFTA), il trattato sulla Carta dell’energia e l’accordo economico e commerciale globale (CETA). Essendo stati concepiti per proteggere gli investitori stranieri dall’esproprio, questi trattati prevedono dei meccanismi per la risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS) che consentono agli investitori di ottenere un indennizzo dai governi, attraverso le corti arbitrali internazionali, nel caso in cui dei cambiamenti a livello politico abbiano ripercussioni sulle loro attività.
Questa condizione lega le mani ai governi che intendono limitare l’estrazione dei combustibili fossili. I risarcimenti potenzialmente ottenibili attraverso i meccanismi ISDS possono essere davvero sostanziosi. Nel 2012, un investitore americano ha avviato un’azione giudiziaria contro il governo del Québec che aveva negato l’autorizzazione a un intervento di fratturazione idraulica sotto il fiume San Lorenzo. Sostenendo che la decisione era stata “arbitraria, impulsiva e illegale” ai sensi del NAFTA, l’azienda energetica con sede nel Delaware ha chiesto un risarcimento di 250 milioni di dollari per i danni subiti.
Nel gennaio 2016, l’azienda TransCanada ha fatto riferimento al NAFTA per citare in giudizio gli Stati Uniti, sostenendo di aver subito perdite per 15 miliardi di dollari in seguito al rifiuto del presidente Barack Obama di autorizzare il progetto dell’oleodotto Keystone XL. (L’azienda ha poi sospeso l’azione legale dopo che, nel gennaio 2017, il presidente Donald Trump ha approvato il progetto).
Lo scorso luglio, inoltre, il Québec ha accettato di concedere un indennizzo pari a quasi 50 milioni di dollari ad alcune aziende dopo l’annullamento dei contratti per la prospezione di giacimenti di petrolio e gas sull’isola d’Anticosti, nel Golfo di San Lorenzo. Questi e altri importi si aggiungono alle centinaia di miliardi di dollari di finanziamenti che continuano a confluire nel settore dei combustibili fossili.
Pagamenti così ingenti non solo prosciugano le casse dello Stato, ma la loro semplice minaccia dissuade i governi dal perseguire politiche climatiche più ambiziose per timore che le industrie che dipendono dai combustibili fossili possano sfidarli in tribunale.
Fortunatamente, questo stato di cose non è immutabile. Oggi molti governi non considerano la riforma del regime di investimenti come una semplice possibilità, bensì come una necessità vera e propria. Il mese scorso, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo ha organizzato una riunione di alto livello a Ginevra con l’obiettivo di esplorare possibili opzioni per una riforma generale del regime di investimenti, compresa la rinegoziazione o la cessazione di circa tremila trattati ormai superati.
I governi dovrebbero, innanzitutto, revisionare o abbandonare il trattato sulla Carta dell’energia, l’unico patto di investimento mondiale specifico per l’energia. La protezione degli investimenti prevista dall’accordo, così come l’assenza di disposizioni in materia di clima, non sono più adeguate ai tempi. Dal suo inizio, il trattato è stato preso come riferimento in oltre cento cause intentate da aziende del settore energetico contro gli stati ospitanti, anche laddove vigevano politiche nazionali ambientali vincolanti, come nel caso del graduale abbandono del nucleare in Germania. La Russia e l’Italia sono già uscite dal trattato; altri paesi dovrebbero seguire il loro esempio o impegnarsi a rinegoziarne i termini.
Inoltre, i paesi dovrebbero mettere le problematiche legate al clima al centro dei negoziati sul commercio e sugli investimenti, eliminando i progetti relativi ai combustibili fossili dalle clausole d’investimento. Ciò corrisponde, in sostanza, a quanto proposto di recente dalla Francia attraverso il ministro per la transizione ecologica Nicolas Hulot, il quale ha annunciato l’intenzione del suo governo di porre un “veto climatico” sul CETA. Hulot ha dichiarato che la Francia sarebbe disposta a ratificare il trattato solo nel caso in cui vi fosse la garanzia che gli interventi legati al clima non possano essere contestati in sede di giudizio. Inoltre, i progetti relativi ai combustibili fossili potrebbero anche essere esonerati dalla protezione degli investimenti nei nuovi trattati ambientali, come il Patto globale sull’ambiente, presentato dal presidente francese Emmanuel Macron all’Assemblea Generale dell’Onu lo scorso settembre.
Riequilibrare il regime degli investimenti globali è soltanto il primo passo verso un’economia a zero emissioni di carbonio. Per spostare capitali dalle iniziative basate sui combustibili fossili a progetti che riguardano l’energia verde, i paesi avranno bisogno di nuovi quadri di riferimento politici e normativi a livello regionale, nazionale e internazionale. Questi accordi dovrebbero promuovere e agevolare gli investimenti puliti, e le riunioni come quella in corso questa settimana o il vertice sul clima di Parigi programmato per il mese prossimo possono servire a stimolare il dibattito sul tema.
(Gli autori desiderano ringraziare Ivetta Gerasimchuk e Martin Dietrich Brauch dell’IISD per il loro contributo al presente articolo.)
Traduzione di Federica Frasca
GINEVRA – Le soluzioni alle crisi climatiche sono spesso associate alle grandi conferenze e, per questo motivo, le prossime due settimane dovrebbero portare con sé molte “risposte”. Circa ventimila delegati sono confluiti a Bonn, in Germania, per l’ultima tornata dei colloqui sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite.
I colloqui di Bonn dovrebbero avere come tema centrale l’attuazione dell’accordo di Parigi sul clima, obiettivo per raggiungere il quale la strada da intraprendere è ormai nota. L’unico modo per contenere l’aumento delle temperature globali entro il limite fissato a Parigi – “ben al di sotto di 2°C” rispetto ai livelli pre-industriali – è distogliere capitali dai combustibili fossili per indirizzarli verso progetti a zero emissioni di anidride carbonica. Per fare ciò, occorre cambiare il modo di gestire gli investimenti energetici a livello globale.
Attualmente, sono gli stessi governi che si proclamano leader nella lotta contro il cambiamento climatico a sostenere e proteggere investimenti finalizzati alla prospezione, l’estrazione e il trasporto dei combustibili fossili. Anziché investire in soluzioni abitative efficienti sotto il profilo energetico, mobilità a zero emissioni, energie rinnovabili e metodi per un miglior utilizzo del suolo, questi governi dicono una cosa, ma continuano a farne un’altra.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) sugli investimenti energetici mondiali, la spesa globale per lo sfruttamento del petrolio e del gas è stata di 649 miliardi di dollari nel 2016, ovvero più del doppio rispetto ai 297 miliardi di dollari investiti nella produzione di energia da fonti rinnovabili, anche se il raggiungimento dell’obiettivo fissato dall’accordo di Parigi implica che tre quarti delle riserve conosciute di combustibili fossili debbano rimanere nel sottosuolo. Queste cifre suggeriscono che un’inerzia a livello istituzionale e dei forti interessi industriali continuano a ostacolare gli investimenti in energie sostenibili.
Buona parte del problema può essere ricondotta ai trattati bilaterali di investimento e alle norme sugli investimenti contenute in accordi commerciali più ampi, come l’accordo nordamericano di libero scambio (NAFTA), il trattato sulla Carta dell’energia e l’accordo economico e commerciale globale (CETA). Essendo stati concepiti per proteggere gli investitori stranieri dall’esproprio, questi trattati prevedono dei meccanismi per la risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS) che consentono agli investitori di ottenere un indennizzo dai governi, attraverso le corti arbitrali internazionali, nel caso in cui dei cambiamenti a livello politico abbiano ripercussioni sulle loro attività.
Questa condizione lega le mani ai governi che intendono limitare l’estrazione dei combustibili fossili. I risarcimenti potenzialmente ottenibili attraverso i meccanismi ISDS possono essere davvero sostanziosi. Nel 2012, un investitore americano ha avviato un’azione giudiziaria contro il governo del Québec che aveva negato l’autorizzazione a un intervento di fratturazione idraulica sotto il fiume San Lorenzo. Sostenendo che la decisione era stata “arbitraria, impulsiva e illegale” ai sensi del NAFTA, l’azienda energetica con sede nel Delaware ha chiesto un risarcimento di 250 milioni di dollari per i danni subiti.
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Nel gennaio 2016, l’azienda TransCanada ha fatto riferimento al NAFTA per citare in giudizio gli Stati Uniti, sostenendo di aver subito perdite per 15 miliardi di dollari in seguito al rifiuto del presidente Barack Obama di autorizzare il progetto dell’oleodotto Keystone XL. (L’azienda ha poi sospeso l’azione legale dopo che, nel gennaio 2017, il presidente Donald Trump ha approvato il progetto).
Lo scorso luglio, inoltre, il Québec ha accettato di concedere un indennizzo pari a quasi 50 milioni di dollari ad alcune aziende dopo l’annullamento dei contratti per la prospezione di giacimenti di petrolio e gas sull’isola d’Anticosti, nel Golfo di San Lorenzo. Questi e altri importi si aggiungono alle centinaia di miliardi di dollari di finanziamenti che continuano a confluire nel settore dei combustibili fossili.
Pagamenti così ingenti non solo prosciugano le casse dello Stato, ma la loro semplice minaccia dissuade i governi dal perseguire politiche climatiche più ambiziose per timore che le industrie che dipendono dai combustibili fossili possano sfidarli in tribunale.
Fortunatamente, questo stato di cose non è immutabile. Oggi molti governi non considerano la riforma del regime di investimenti come una semplice possibilità, bensì come una necessità vera e propria. Il mese scorso, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo ha organizzato una riunione di alto livello a Ginevra con l’obiettivo di esplorare possibili opzioni per una riforma generale del regime di investimenti, compresa la rinegoziazione o la cessazione di circa tremila trattati ormai superati.
I governi dovrebbero, innanzitutto, revisionare o abbandonare il trattato sulla Carta dell’energia, l’unico patto di investimento mondiale specifico per l’energia. La protezione degli investimenti prevista dall’accordo, così come l’assenza di disposizioni in materia di clima, non sono più adeguate ai tempi. Dal suo inizio, il trattato è stato preso come riferimento in oltre cento cause intentate da aziende del settore energetico contro gli stati ospitanti, anche laddove vigevano politiche nazionali ambientali vincolanti, come nel caso del graduale abbandono del nucleare in Germania. La Russia e l’Italia sono già uscite dal trattato; altri paesi dovrebbero seguire il loro esempio o impegnarsi a rinegoziarne i termini.
Inoltre, i paesi dovrebbero mettere le problematiche legate al clima al centro dei negoziati sul commercio e sugli investimenti, eliminando i progetti relativi ai combustibili fossili dalle clausole d’investimento. Ciò corrisponde, in sostanza, a quanto proposto di recente dalla Francia attraverso il ministro per la transizione ecologica Nicolas Hulot, il quale ha annunciato l’intenzione del suo governo di porre un “veto climatico” sul CETA. Hulot ha dichiarato che la Francia sarebbe disposta a ratificare il trattato solo nel caso in cui vi fosse la garanzia che gli interventi legati al clima non possano essere contestati in sede di giudizio. Inoltre, i progetti relativi ai combustibili fossili potrebbero anche essere esonerati dalla protezione degli investimenti nei nuovi trattati ambientali, come il Patto globale sull’ambiente, presentato dal presidente francese Emmanuel Macron all’Assemblea Generale dell’Onu lo scorso settembre.
Riequilibrare il regime degli investimenti globali è soltanto il primo passo verso un’economia a zero emissioni di carbonio. Per spostare capitali dalle iniziative basate sui combustibili fossili a progetti che riguardano l’energia verde, i paesi avranno bisogno di nuovi quadri di riferimento politici e normativi a livello regionale, nazionale e internazionale. Questi accordi dovrebbero promuovere e agevolare gli investimenti puliti, e le riunioni come quella in corso questa settimana o il vertice sul clima di Parigi programmato per il mese prossimo possono servire a stimolare il dibattito sul tema.
(Gli autori desiderano ringraziare Ivetta Gerasimchuk e Martin Dietrich Brauch dell’IISD per il loro contributo al presente articolo.)
Traduzione di Federica Frasca