NEW YORK – In gran parte del mondo, preoccupano i salari da fame delle persone più emarginate e delle molte vittime di discriminazioni razziali e di genere. Sebbene i crediti d’imposta per le madri single a basso reddito forniscano un sostegno economico e contribuiscano allo sviluppo dei loro figli, si colgono comunque segni di povertà tra i lavoratori, come malnutrizione, salute precaria e abuso di stupefacenti.
Meno riconosciuto è il fatto che molti lavoratori a basso salario sono spesso costretti a rifiutare un lavoro appagante perché remunerato troppo poco. E senza un “buon lavoro”, questi lavoratori non possono fare “una buona vita”. Tali risultati, specialmente nelle economie avanzate, sono il triste segnale che qualcosa non va: il problema non è la “disuguaglianza”, ma un elevato grado di ingiustizia.
Ampie fasce della società vivono una profonda frustrazione per la tendenza al ribasso delle gratificazioni del lavoro e dell’impresa. Dagli anni settanta del secolo scorso, c’è stato un generale declino della soddisfazione sul lavoro e una quasi totale cessazione della crescita dei salari reali negli Stati Uniti e, successivamente, nel Regno Unito, Francia e forse alcune aree della Germania e altri paesi. Fra l’altro, i tassi di interesse reali sono crollati arrivando a sfiorare un punto di non ritorno. Alla base di ciò vi è un calo dell’innovazione. Evidentemente, qualche difetto nel meccanismo della soddisfazione umana non è stato affrontato in modo adeguato.
Mentre le società occidentali lavorano per assicurare la giustizia economica, è fondamentale che esse ripristinino e mantengano una diffusa esperienza della buona vita. Ciò significa fornire lavoro significativo come quello del capitalismo d’impresa, in cui i soggetti partecipanti usano la ricchezza accumulata e le abilità sviluppate per creare vari settori e investire in progetti diversi. Per fare ciò, i paesi hanno allevato e formato persone in grado di esercitare la propria creatività concependo nuovi metodi e prodotti commerciali – e anche abbastanza sagge e coraggiose da correre il rischio di sostenere l’innovazione.
Allo stesso tempo, si va delineando un dibattito sulla giustizia economica. Alcune voci nel Partito Democratico, compresa quella del candidato alle presidenziali Joe Biden, hanno alimentato l’aspettativa che, se vincerà le elezioni, il loro partito affronterà le ingiustizie denunciate all’ultima convention. D’altro canto, i repubblicani – già da Ronald Reagan e oggi, a volte, Donald Trump – dicono che le misure tese a ridurre le disuguaglianze mettono a rischio la crescita economica.
Ciò che hanno in mente sono dei programmi su vasta scala per aumentare i redditi dei lavoratori poveri negli ultimi decenni, a cominciare dalla “Great Society”, lanciata dall’amministrazione di Lyndon Johnson negli anni sessanta del secolo scorso, e l’Earned Income Tax Credit, un modello integrato spesa-imposta risalente agli anni settanta. Inoltre, come si è recentemente osservato, i democratici emanarono leggi su “Medicare, tessere alimentari, Head Start e una miriade di altri programmi che aiutavano allo stesso modo sia i bianchi che le minoranze”. Tutto questo ha rallentato la crescita?
At a time of escalating global turmoil, there is an urgent need for incisive, informed analysis of the issues and questions driving the news – just what PS has always provided.
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Sembra, effettivamente, che la crescita della produttività – più precisamente, la produttività totale dei fattori e, infine, la produttività del lavoro – abbia registrato un rallentamento subito dopo l’emanazione di queste leggi e che, tranne durante l’apice della rivoluzione di Internet, sia rimasta limitata. Tuttavia, come si suol dire, “la correlazione non implica causalità”.
La mia tesi contraria, che è stata lungamente argomentata e ora viene ampiamente testata, è che il grande rallentamento della produttività sia stato di fatto causato da una perdita significativa di persone ancora desiderose di concepire nuovi prodotti e metodi commerciali, e non dalla Great Society. Di certo, è poco plausibile che la colpa sia di chi è stato aiutato da quest’ultima. In ogni caso, non sembrano esserci studi econometrici che dimostrino che i paesi che aiutano i più emarginati registrano una crescita minore.
Desta preoccupazione anche un altro aspetto, che potremmo definire come “onere legato alla capacità fiscale”. Alcuni economisti e imprenditori temono che l’aumento di aliquote fiscali già elevate nella speranza di ottenere il denaro necessario per una sostanziale riduzione della povertà non riuscirebbe a raccogliere molte più entrate. Potrebbe addirittura verificarsi una perdita di gettito dal momento che i contribuenti riducono l’offerta di lavoro e le aziende perdono interesse ad aumentare la loro efficienza. Eppure, non c’è uno straccio di prova accademica in grado di dimostrare che le economie occidentali – e certamente non l’economia a bassa tassazione degli Stati Uniti – abbiano raggiunto i limiti della loro capacità fiscale.
Gli Stati Uniti (e, a vari livelli, altri governi occidentali) hanno, quindi, sufficiente spazio per attaccare l’ingiustizia economica. Per portare le retribuzioni dei lavoratori a basso salario a un livello accettabile, lo stato vorrà istituire un programma di sussidi per alzare maggiormente i tassi salariali dei ceti più bassi. Secondo tale piano, i sussidi si abbasserebbero progressivamente per ciascuna fascia salariale ascendente.
Gran parte dell’attenzione oggi dedicata all’ingiustizia economica scaturisce da A Theory of Justice (Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1991), opera di riferimento del filosofo John Rawls, scritta quasi cinquant’anni fa. Rawls sosteneva che la giustizia richiede d’innalzare al massimo i salari dei lavoratori meno pagati – il che implicherebbe una tassazione fino alla massima capacità. (Poco tempo dopo, in un articolo del 1974, realizzai io stesso un modello di tassazione rawlsiana) Naturalmente, una teoria si basa su varie fonti, e Rawls si concentrò sulla povertà attingendo a ogni possibile fonte. La mia speranza, oggi, è di lavorare per un’economia che sia tanto inclusiva quanto giusta.
Se è importante sapere come uscire dalla povertà, altrettanto importante è sapere quale strada non intraprendere. Dobbiamo opporci al reddito di base universale – un deplorevole impiego delle entrate statali che troverebbero miglior utilizzo nell’aumento del reddito dei lavoratori a basso salario fino a un livello che consenta loro di provvedere al proprio sostentamento, condizione essenziale per l’autostima. Inoltre, il reddito di base universale allontanerebbe (o terrebbe lontane) le persone e i loro figli dal lavoro, che per molti è l’unica strada per una realizzazione personale e un soddisfacente coinvolgimento nel mondo.
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US President Donald Trump’s import tariffs have triggered a wave of retaliatory measures, setting off a trade war with key partners and raising fears of a global downturn. But while Trump’s protectionism and erratic policy shifts could have far-reaching implications, the greatest victim is likely to be the United States itself.
warns that the new administration’s protectionism resembles the strategy many developing countries once tried.
It took a pandemic and the threat of war to get Germany to dispense with the two taboos – against debt and monetary financing of budgets – that have strangled its governments for decades. Now, it must join the rest of Europe in offering a positive vision of self-sufficiency and an “anti-fascist economic policy.”
welcomes the apparent departure from two policy taboos that have strangled the country's investment.
NEW YORK – In gran parte del mondo, preoccupano i salari da fame delle persone più emarginate e delle molte vittime di discriminazioni razziali e di genere. Sebbene i crediti d’imposta per le madri single a basso reddito forniscano un sostegno economico e contribuiscano allo sviluppo dei loro figli, si colgono comunque segni di povertà tra i lavoratori, come malnutrizione, salute precaria e abuso di stupefacenti.
Meno riconosciuto è il fatto che molti lavoratori a basso salario sono spesso costretti a rifiutare un lavoro appagante perché remunerato troppo poco. E senza un “buon lavoro”, questi lavoratori non possono fare “una buona vita”. Tali risultati, specialmente nelle economie avanzate, sono il triste segnale che qualcosa non va: il problema non è la “disuguaglianza”, ma un elevato grado di ingiustizia.
Ampie fasce della società vivono una profonda frustrazione per la tendenza al ribasso delle gratificazioni del lavoro e dell’impresa. Dagli anni settanta del secolo scorso, c’è stato un generale declino della soddisfazione sul lavoro e una quasi totale cessazione della crescita dei salari reali negli Stati Uniti e, successivamente, nel Regno Unito, Francia e forse alcune aree della Germania e altri paesi. Fra l’altro, i tassi di interesse reali sono crollati arrivando a sfiorare un punto di non ritorno. Alla base di ciò vi è un calo dell’innovazione. Evidentemente, qualche difetto nel meccanismo della soddisfazione umana non è stato affrontato in modo adeguato.
Mentre le società occidentali lavorano per assicurare la giustizia economica, è fondamentale che esse ripristinino e mantengano una diffusa esperienza della buona vita. Ciò significa fornire lavoro significativo come quello del capitalismo d’impresa, in cui i soggetti partecipanti usano la ricchezza accumulata e le abilità sviluppate per creare vari settori e investire in progetti diversi. Per fare ciò, i paesi hanno allevato e formato persone in grado di esercitare la propria creatività concependo nuovi metodi e prodotti commerciali – e anche abbastanza sagge e coraggiose da correre il rischio di sostenere l’innovazione.
Allo stesso tempo, si va delineando un dibattito sulla giustizia economica. Alcune voci nel Partito Democratico, compresa quella del candidato alle presidenziali Joe Biden, hanno alimentato l’aspettativa che, se vincerà le elezioni, il loro partito affronterà le ingiustizie denunciate all’ultima convention. D’altro canto, i repubblicani – già da Ronald Reagan e oggi, a volte, Donald Trump – dicono che le misure tese a ridurre le disuguaglianze mettono a rischio la crescita economica.
Ciò che hanno in mente sono dei programmi su vasta scala per aumentare i redditi dei lavoratori poveri negli ultimi decenni, a cominciare dalla “Great Society”, lanciata dall’amministrazione di Lyndon Johnson negli anni sessanta del secolo scorso, e l’Earned Income Tax Credit, un modello integrato spesa-imposta risalente agli anni settanta. Inoltre, come si è recentemente osservato, i democratici emanarono leggi su “Medicare, tessere alimentari, Head Start e una miriade di altri programmi che aiutavano allo stesso modo sia i bianchi che le minoranze”. Tutto questo ha rallentato la crescita?
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La mia tesi contraria, che è stata lungamente argomentata e ora viene ampiamente testata, è che il grande rallentamento della produttività sia stato di fatto causato da una perdita significativa di persone ancora desiderose di concepire nuovi prodotti e metodi commerciali, e non dalla Great Society. Di certo, è poco plausibile che la colpa sia di chi è stato aiutato da quest’ultima. In ogni caso, non sembrano esserci studi econometrici che dimostrino che i paesi che aiutano i più emarginati registrano una crescita minore.
Desta preoccupazione anche un altro aspetto, che potremmo definire come “onere legato alla capacità fiscale”. Alcuni economisti e imprenditori temono che l’aumento di aliquote fiscali già elevate nella speranza di ottenere il denaro necessario per una sostanziale riduzione della povertà non riuscirebbe a raccogliere molte più entrate. Potrebbe addirittura verificarsi una perdita di gettito dal momento che i contribuenti riducono l’offerta di lavoro e le aziende perdono interesse ad aumentare la loro efficienza. Eppure, non c’è uno straccio di prova accademica in grado di dimostrare che le economie occidentali – e certamente non l’economia a bassa tassazione degli Stati Uniti – abbiano raggiunto i limiti della loro capacità fiscale.
Gli Stati Uniti (e, a vari livelli, altri governi occidentali) hanno, quindi, sufficiente spazio per attaccare l’ingiustizia economica. Per portare le retribuzioni dei lavoratori a basso salario a un livello accettabile, lo stato vorrà istituire un programma di sussidi per alzare maggiormente i tassi salariali dei ceti più bassi. Secondo tale piano, i sussidi si abbasserebbero progressivamente per ciascuna fascia salariale ascendente.
Gran parte dell’attenzione oggi dedicata all’ingiustizia economica scaturisce da A Theory of Justice (Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1991), opera di riferimento del filosofo John Rawls, scritta quasi cinquant’anni fa. Rawls sosteneva che la giustizia richiede d’innalzare al massimo i salari dei lavoratori meno pagati – il che implicherebbe una tassazione fino alla massima capacità. (Poco tempo dopo, in un articolo del 1974, realizzai io stesso un modello di tassazione rawlsiana) Naturalmente, una teoria si basa su varie fonti, e Rawls si concentrò sulla povertà attingendo a ogni possibile fonte. La mia speranza, oggi, è di lavorare per un’economia che sia tanto inclusiva quanto giusta.
Se è importante sapere come uscire dalla povertà, altrettanto importante è sapere quale strada non intraprendere. Dobbiamo opporci al reddito di base universale – un deplorevole impiego delle entrate statali che troverebbero miglior utilizzo nell’aumento del reddito dei lavoratori a basso salario fino a un livello che consenta loro di provvedere al proprio sostentamento, condizione essenziale per l’autostima. Inoltre, il reddito di base universale allontanerebbe (o terrebbe lontane) le persone e i loro figli dal lavoro, che per molti è l’unica strada per una realizzazione personale e un soddisfacente coinvolgimento nel mondo.
Traduzione di Federica Frasca