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L'azione antitrust dell'Italia non guarda ai consumatori

MILANO – Questo mese, l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ha multato Amazon per 1,13 miliardi di euro per aver abusato della sua posizione dominante sul mercato e aver costretto i venditori terzi a usare il suo servizio di logistica interno. La sanzione è davvero ragguardevole, anche per una società enorme come Amazon, che ha avuto un fatturato globale di 380 miliardi di dollari nel 2020 ma un utile netto di 21,3 miliardi di dollari.

La decisione dell'AGCM è destinata a risultare "popolare", dal momento che c'è un ampio consenso sul fatto che bisogna fare qualcosa circa lo sfruttamento da parte delle aziende Big Tech dei dati delle persone e il loro potere di spazzar via altri modelli di business. Fin dalle "guerre dei browser" degli anni '90, le implicazioni di mercato delle nuove tecnologie sono state considerate una questione che dovesse dirimere l’Antitrust. Durante la presidenza Clinton, le autorità antitrust prendevano Microsoft, accusandola di sfruttare la sua posizione dominante nel campo dei sistemi operativi desktop per assicurare analogo successo al browser internet Explorer. In effetti, ora sappiamo che, sebbene il browser concorrente (Netscape) non sia sopravvissuto, il dominio di Microsoft era lì lì per finire - proprio quando i regolatori e il pubblico lo temevano di più.

All'epoca, gli zelanti “trustbuster” erano osteggiati da economisti e giuristi della "Scuola di Chicago" che sostenevano che i regolatori antitrust dovrebbero essere guidati dal concetto di benessere del consumatore, piuttosto che da qualche calcolo astruso del numero ottimale di concorrenti in un settore. Ma non ci sono considerazioni sul benessere dei consumatori nella recente sentenza italiana.

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