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È ora di rinunciare al target di 1,5°C?

MILANO – Le promesse di raggiungere lo zero netto vanno molto di moda. Paesi, imprese e altre realtà a livello mondiale si sono impegnati a eliminare le proprie emissioni nette di gas serra entro una data precisa, alcuni già entro il 2030. Ma il target dello zero netto non equivale a limitare il riscaldamento globale a 1,5° Celsius, obiettivo fissato dall’accordo di Parigi sul clima, o del resto a qualunque altro valore specifico. È il percorso verso le zero emissioni nette ciò che fa la differenza.  

Questo concetto è stato ben compreso dagli esperti. Per fare un esempio, un rapporto pubblicato dall’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) nel 2021 traccia un percorso dettagliato, suddiviso in intervalli temporali di cinque anni, verso le zero emissioni nette entro il 2050 e la “possibilità per il mondo di limitare l’aumento delle temperature globali a 1,5°C”. L’aspetto più sorprendente di quest’analisi, almeno dal mio punto di vista, è la quantità di emissioni da combustibili fossili da ridurre entro il 2030: circa otto miliardi di tonnellate, passando dalle odierne 34 gigatonnellate di anidride carbonica a 26.    

Per realizzare ciò, le emissioni dovrebbero diminuire un ritmo del 5,8% l’anno. Se la crescita stimata dell’economia mondiale si manterrà sul 2% annuo nell’arco di tale periodo, la relativa intensità del carbonio (misurata in quantità di CO2 per 1.000 dollari di Pil) dovrebbe ridursi ogni anno del 7,8%. Sebbene l’intensità di carbonio sia diminuita negli ultimi quarant’anni, non siano neanche lontanamente vicini a quel target: tra il 1980 e il 2021, l’intensità del carbonio è calata in media di appena l’1,3% l’anno.  

Se tale ritmo non bastava a mantenere le emissioni di CO2 più o meno costanti, figuriamoci a farle diminuire. Di fatto, con la crescita del Pil mondiale che supera il declino dell’intensità del carbonio di circa due punti percentuali, in tale lasso di tempo le emissioni sono più o meno raddoppiate. Una delle ragioni è che, per la maggior parte del tempo, si è fatto ben poco per ridurre l’intensità carbonica. Il calo registrato era perlopiù una conseguenza dell’arricchimento delle economie emergenti (più è sviluppata un’economia, più l’intensità del carbonio si abbassa).  

Sicuramente, dal momento in cui il cambiamento climatico ha catturato l’attenzione dei politici, questo declino ha subito un’accelerazione, attestandosi su una media dell’1,9% annuo a partire dal 2010. E con le restrizioni dell’offerta che oggi gravano sull’economia globale – il tasso di crescita annuale potrebbe limitarsi al 2% nei prossimi anni – un’ulteriore piccola riduzione dell’intensità carbonica potrebbe essere sufficiente per collocare l’economia globale in prossimità del picco delle sue emissioni totali di CO2. Un incremento della crescita mondiale potrebbe non ostacolare neppure gli sforzi per ridurre l’intensità carbonica dell’economia, se è alimentata dalla proliferazione delle tecnologie digitali.     

Un picco delle emissioni rappresenterebbe una tappa importante. Ma se non fosse immediatamente seguito da un netto calo, ci troveremmo comunque a pompare circa 34 gigatonnellate di CO2 nell’atmosfera ogni anno. Anche se il rapporto Iea non affronta quelle che sarebbero le conseguenze se mancassimo di rispettare significativamente i primi due target intermedi (2025 e 2030), si può presumere che sarebbe pressoché impossibile evitare il superamento della soglia di 1.5ºC.    

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Gli strumenti per raggiungere gli obiettivi dell’Iea ce li abbiamo. Come spiega il rapporto, nel primo decennio non serviranno nuove scoperte tecnologiche. Fra l’altro, i costi non sembrano neanche proibitivi. I prezzi dell’energia eolica e solare, ad esempio, sono diminuiti in modo sostanziale negli ultimi anni. Tuttavia, dovrebbero verificarsi cambiamenti radicali in quasi tutti i settori dell’economia mondiale, che non sembra stiano avvenendo al ritmo che l’Iea ritiene opportuno.    

Resta il fatto che il target di 26 Gt di CO2 entro il 2030, indicato nel rapporto Iea, è fuori portata perché l’intensità carbonica dell’economia globale sta diminuendo soltanto a un quarto della velocità necessaria. Una forte discontinuità rispetto a questa variabile è possibile, e forse qualcuno potrebbe osservare che 26 Gt resta un obiettivo indicativo utile. Ma ciò non sembra molto realistico.    

È meglio aggrapparsi a un target irraggiungibile perché rappresenta la via migliore per le persone e il pianeta, oppure rimpiazzarlo con un qualcosa di più fattibile? Continuare a spingere verso un obiettivo poco realistico può intralciare i progressi perché poi la gente si demotiva o semplicemente smette di considerarlo credibile? O è forse peggio accettare le conseguenze di abbandonare un percorso ambizioso, compreso il rischio di oltrepassare dei punti di non ritorno? 

Qualunque strada il mondo scelga di percorrere, la sfida resterà sempre la stessa, cioè ridurre le emissioni di CO2 in modo rapido e drastico. Certo, è più facile a dirsi che a farsi. L’economia mondiale è formata da 195 paesi con culture, sistemi politici e fasi di sviluppo differenti, così come da una miriade di aziende di ogni tipo e grandezza, e da otto miliardi di persone. A complicare ulteriormente le cose, i diffusi effetti distributivi sia dell’agire (rapide transizioni energetiche) che del non agire (cambiamenti climatici) sono difficili da affrontare, specialmente in sede di negoziati internazionali.  

Ma semplificare la sfida è possibile. Metà delle emissioni globali di gas serra proviene da un ristretto gruppo di economie soltanto: Cina, Stati Uniti, Unione europea, Giappone, India, Canada, Australia e Russia. I paesi del G20 sono responsabili del 70% del totale. Uno sforzo concertato e coordinato tra queste grandi economie farebbe una vera differenza nell’andamento delle emissioni e, forse ancor più importante, produrrebbe le tecnologie e le strategie gestionali necessarie per raggiungere l’obiettivo dello zero netto.

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